L’esistenzialismo: il problema della libertà e della conoscenza

Il grande fascino che scaturisce da quell’indirizzo filosofico che prende il nome di Esistenzialismo, nasce dalla grande difficoltà di poterne descriverne con certezza gli interpreti e di definirne le peculiarità del campo d’indagine. È curioso ricordare come la filosofia esistenzialista del ‘900 si ispiri ad autori quali Kirkegaard, Pascal e Montaigne, i quali hanno sviluppato il loro pensiero in un contesto storico e culturale alquanto lontano dagli sviluppi della contemporaneità filosofica. Ciò distingue profondamente anche le finalità che animano i diversi grandi nomi che vanno a costituire l’orizzonte entro il quale si colloca la corrente dell’esistenzialismo. Ritengo opportuno proporvi la continuità tematica di alcuni problemi comuni che attanagliavano le menti di personalità così distanti ideologicamente e culturalmente.

Bisogna anzitutto specificare che l’intero pensiero filosofico occidentale, da Parmenide in poi, si è sempre posto il problema di studiare l’essere delle cose. Il termine, introdotto nel XVII secolo, per indicare la disciplina che studia l’essere in quanto tale è “ontologia”, ovvero la ricerca dell’essere in quanto tale. Ora, è importante comprendere che a tutti i pensatori che vi propongo di seguito non interessa poi molto lo studio dell’essere in quanto tale, ma spostano il loro interesse sulla concretezza dell’esistenza dell’uomo. I due grandi temi di questo studio sull’esistenza umana sono rappresentati dalla libertà e dalla possibilità della conoscenza.

Ma perché è così importante il problema della libertà?

Per Pico della Mirandola, l’uomo è l’unico creatura vivente che non ha una natura predeterminata. Ciò significa che l’uomo è l’unico essere che si rende conto del mondo che lo circonda. Riflettiamo un attimo. Qualsiasi animale vive sulla base di istinti primordiali che lo caratterizzano; questo comporta che gli animali hanno delle leggi prestabilite nella loro stessa natura che regolano tutti i loro comportamenti. Ma parliamo dell’uomo. Cosa lo differenzia dagli animali? Il fatto che egli è un essere libero, che possiede la libertà di scegliere cosa fare del proprio destino. Attenzione però! Questa sua grande dote è in realtà, per la filosofia esistenzialista, la sua più grande condanna. Vediamo perché.

Per Sartre, l’uomo è condannato ad essere libero, in quanto egli non ha scelto di venire al mondo. Egli si trova improvvisamente nel mondo, come un progetto gettato, senza averlo scelto. A questo punto però si rende conto che per vivere in questo mondo, egli deve continuamente fare delle scelte, prendere delle decisioni. Diventa, cioè, responsabile di tutto quello che sceglie di fare. Il dramma si accresce anche perché l’uomo, una volta gettato nel mondo a scegliersi il futuro, non potrà mai cessare di essere libero e di prendere sempre delle decisioni. A questo punto, se ci pensiamo bene, sorge un ulteriore problema che Heidegger ci spiega molto bene. Ognuno di noi non è un qualcosa di immutabile, sempre uguale a se stesso per tutta la vita, ma è l’esatto opposto. Noi non siamo mai solo ciò che siamo in un determinato momento, ma sempre anche quello che progettiamo di essere per il futuro. Non eseguiamo mai un’azione tanto per farla, ma sempre perché abbiamo degli scopi ben precisi, dei motivi. Quando scegliete di comprare un libro non lo fate mai a caso, ma sempre per qualche motivo vostro personale; su consiglio di un amico, perché vi ha incuriosito la trama o la copertina ecc. Tuttavia, per Heidegger conta molto anche il passato, o meglio l’orizzonte entro il quale noi facciamo delle scelte. In pratica egli sostiene semplicemente che ogni nostra azione è sempre vincolata dalla nostra tradizione familiare, dagli insegnamenti ricevuti, dal periodo storico e culturale in cui viviamo. Una volta compreso tutto questo discorso, possiamo finalmente parlare di cosa comportano le nostre scelte. Anzitutto, partendo dal presupposto che Heidegger non crede in Dio, bisogna precisare che se non esiste una vita di redenzione e perdono dopo la morte, allora è chiaro che ogni scelta che io faccio acquisterà un senso assoluto. La scelta di una cosa esclude l’altra. Nessuno mi perdona se sbaglio, ma pago solo le conseguenze della mia cattiva azione. Questo tipo di vita, basata sulla scelta, è considerata un’esistenza autentica, ovvero la vita di un uomo che sceglie essendo consapevole del fatto che dopo la morte nessuno lo perdonerà se ora sbaglia. In pratica l’uomo non ha altre possibilità, ma sempre e solo una. Ciò comporta che ogni scelta arreca nell’uomo angoscia, perché se sbaglia non c’è speranza di reversibilità. L’angoscia, ben tratteggiata da Kirkegaard, è la minaccia del nulla e il sentimento del possibile. Perché proviamo angoscia? Perché quando dobbiamo scegliere c’è una possibilità giusta e mille sbagliate.

Dopo aver illustrato sinteticamente il problema della libertà, possiamo ora parlare dell’altro grande tema della filosofia dell’esistenzialismo, ovvero il problema della possibilità della conoscenza.

Possiamo realmente conoscere il mondo che ci circonda?

La risposta degli esistenzialisti è negativa. Per Jaspers il mondo non è altro che un continuo divenire, un susseguirsi di cose senza alcun senso che noi, esseri umani, non possiamo comprendere totalmente. L’uomo, secondo il filosofo, può conoscere solo gli oggetti che si presentano a noi come già determinati, ma da dove provengano e cosa significhino (in se stessi) ci è impossibile comprenderlo. Per il filosofo francese Marcel, l’uomo può e deve sempre cercare la verità, pur essendo cosciente del fatto che non potrà mai giungere a una risoluzione definitiva. Pensiamo un attimo ai filosofi. Ogni risultato che un singolo pensatore raggiunge è sempre parziale, perché continua il percorso di quello che lo precede e verrà a sua volta superato dai filosofi che seguiranno. In effetti la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi naviga sempre nell’incertezza. Per Montaigne, anche quelle certezze che ci appaiono tali, non sono esenti da dubbi. La ragione, prosegue il pensatore francese, non è illimitata ma si limita a fornire dei consigli utili al fine di agevolare la condotta da assumere in questo mondo privo di un significato preciso. Questo disagio esistenzialista si sviluppa anche in quella letteratura del ‘900 che ha in Kafka e Camus i due esponenti più significativi. Negli scritti di Kafka tutta l’esistenza umana è continuamente minacciata dall’insignificanza e dal nulla, minaccia che si interrompe solo con la morte. La realtà tende sempre a sfuggire ai suoi personaggi che si illudono solo momentaneamente di poterla comprendere. L’agrimensore de “Il castello” si trova schiacciato da una realtà che sfugge ai suoi criteri di valutazione e si sente ovunque schiacciato e alienato. L’assurdità dell’essere trova il suo compimento nel pensiero e nei romanzi di Albert Camus. Egli ritiene che l’uomo possegga un’infinità di aspirazioni che, tuttavia, non riesce mai a realizzare pienamente. Il protagonista de “Lo straniero” è indifferente alla vita. Si reca senza commozione al funerale della madre e uccide un uomo senza rendersene conto e senza alcun motivo. Accetta senza problemi persino la sua condanna a morte. Davanti al non-senso, all'assurdo, la domanda sorge spontanea: ha senso vivere?

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