SANT'AGOSTINO E LA CONCEZIONE DEL TEMPO

Agostino critica la classica divisione del tempo in tre tempi: passato, presente e futuro.

È chiaro che se nulla passasse, non potrebbe esistere un passato;

se nulla sopraggiungesse, non potrebbe esistere un futuro;

Se nulla esistesse, non potrebbe esistere neppure un presente.

Queste tre verità, chiare a tutti noi, nascondono però un grande errore di fondo.

Come fa ad esistere il passato dal momento che non esiste più?

E come fa ad esistere il futuro dato che non esiste ancora?

A questo punto, voi potreste pensare che il gioco è risolto: esiste solo il presente.

Ma non è così semplice la risoluzione del problema. Infatti presente significa qualcosa che si trova qui ed ora davanti ai miei sensi che la percepiscono. Ma basta un attimo per farmi comprendere che, ciò che un secondo fa era qui ed ora davanti a me, è già diventato qualcosa che sta nel passato. Basta pensare a quando vi scattano una fotografia: la fate e poi mentre vi guardate sorridenti impressionati sullo schermo della fotocamera, contemplate già un momento che appartiene al vostro passato. Bene allora mi sembra chiaro che se il presente rimanesse sempre presente sarebbe destinato a non tramontare mai nel passato e quindi non sarebbe più un tempo, ma l’eternità. Se mentre vi faccio la foto voi continuate a sorridere in eterno senza che io la scatti mai, allora si che potremmo parlare di eterno presente. Il problema del presente è proprio il fatto che esso scorre, fluisce, scappa continuamente e quindi è privo di estensione. Inoltre non dimentichiamo che il presente termina immediatamente nel passato e quindi sarebbe arduo affermare l’estensione del presente, se a questo basta un attimo per smettere di esistere. A questo punto Agostino spiazza tutti asserendo che anche per lui esistono tre tempi. Ma questi tempi non sono altro che il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro. Il presente del passato è chiaramente la nostra memoria, o meglio le immagini del passato depositate nella nostra memoria. Quando si raccontano avvenimenti passati non ritornano alla mente gli avvenimenti in se stessi, ma le immagini di essi che abbiamo impresso nella nostra memoria. Questa è la nostra delizia e la nostra condanna; se ricordiamo i numeri possiamo eseguire tutte le operazioni che ci si presentano in un esame di matematica, ma se ci ricordiamo di un amore passato, spesso questo ci appare diverso perché l’immagine che ne conserviamo può rivelarsi molto dissimile dai momenti che abbiamo vissuto realmente in passato. Il presente del futuro è invece l’attesa. L’attesa ci condanna sempre ad aspettare qualcosa che arriverà in un tempo prossimo a venire e che rappresenta proprio la misura del nostro futuro. Quando si dice che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso, che non esiste ancora, ma si vedono nel presente delle cause o degli indizi che potrebbero condurre a quegli effetti e a quei risultati in un tempo successivo; non il futuro, ma il presente appare alla nostra vista e grazie ad esso possono essere preannunziate cose prossime a compiersi. Il presente del presente, come già era chiaro sopra, è semplicemente il momento in cui noi intuiamo le cose. Tutto dipende da questa intuizione perché il tempo possiamo misurarlo solo quando lo percepiamo. Il tempo è quindi estensione del nostro animo. Non è altro che l’impressione delle cose che viene conservata in noi, la quale dura anche quando le cose non sono più presenti. Il nostro animo compie tre operazioni fondamentali: attende, presta attenzione e ricorda. Quello che l’animo attende, attraverso il suo sviluppo nel presente, passa subito dopo nel ricordo.

“Nell’animo vive l’attesa del futuro, la memoria del passato e, nonostante il presente manchi di estensione, dura l’attenzione attraverso la quale il futuro tende al passato.”

EPICURO L'INCOMPRESO

La filosofia originaria di Epicuro, l’epicureismo, è certamente uno dei momenti più interessanti dell’intera storia del pensiero filosofico. Purtroppo gran parte del successo di cui gode questo movimento è dovuto prevalentemente ad una preoccupante incomprensione dei suoi dettami e delle sue finalità.

L’errore di fondo risiede nello scorretto significato attribuito al piacere, tanto decantato dall’epicureismo. Chiunque pensi che Epicuro propinasse una filosofia dell’allegria, della dissolutezza e del piacere orgiastico, commette un errore madornale. Anzitutto bisogna distinguere due tipi di piacere: il piacere in movimento e il piacere stabile. Il primo consiste in tutti quegli attimi di gioia e di spensieratezza che coronano, fortunatamente, la vita di ognuno di noi. Il secondo si esplica nella privazione del dolore. Ora, la prima tipologia di piacere non solo è avversata da Epicuro, ma si rivela essere persino un ostacolo al raggiungimento della seconda forma, il piacere duraturo. La vita felice consiste in un’esistenza che prevede l’assenza del dolore e dei problemi futili. Solo conoscendo questa santa verità si vive felici. Qualsiasi forma di timore deriva esclusivamente dall’ignoranza dell’uomo. L’uomo, al fine di giungere ad un’esistenza che lo completi, deve liberarsi di ogni desidero irrequieto, al fine di poter abbracciare una serenità permanente. Infatti più che dottrina del piacere, quella di Epicuro è una dottrina del piacere negativo. Il piacere negativo indica un stato in cui l’uomo prova su e in se stesso l’atarassia(assenza di turbamento) e l’aponia (assenza di dolore). Usando una mediocre metafora, potrei suggerire che l’uomo felice non è quello che ride spesso, ma quello che non piange mai. Il culmine del piacere, quindi, si raggiunge solo attraverso la limitazione dei propri bisogni. L’uomo epicureo non è mai schiavo dei suoi desideri futili, ma è ligio al perseguimento dei soli desideri naturali e necessari. L’epicureismo non vuole l’abbandono al piacere, ma l’esatto opposto: la misura dei piaceri. Il vero piacere non è mai quello violento e momentaneo. L’uomo deve essere in grado di considerare i vantaggi e gli svantaggi di ogni sua scelta; infatti un bene presente potrà rivelarsi un male futuro ed un male presente potrà tramutarsi in un bene futuro. Quindi cosa dobbiamo assolutamente evitare, secondo Epicuro, per raggiungere la serenità dell’animo? Bisogna eliminare il dolore che proviene dal bisogno. Il principio del bene è la prudenza. Lo stesso filosofo ci ricorda che “solo non avendo il molto, ci accontentiamo del poco” ed insiste ricordandoci che “gode dell’abbondanza chi meno di essa ha bisogno”. In sintesi, il piacere deriva dal sobrio ragionare che sappia scegliere con cura le motivazioni di ogni atto, che sappia scacciare le false opinioni. Epicuro insiste anche su di un altro punto. Egli sostiene che, poichè la felicità si può raggiungere in questo mondo, la morte non deve spaventarci. Ciò significa che la nostra vita terrena ci offre l’opportunità di essere felici e quindi non abbiamo alcun bisogno e necessità di postulare una vita eterna. Per ciò che concerne la morte, dice Epicuro, “se ogni bene ed ogni male risiedono nella sensazione, la morte è privazione di questa”. La morte è solo dissoluzione degli atomi di un corpo, quindi mera insensibilità. Come si fa a temere la morte se “quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte noi non ci siamo più”?. Epicuro non crede neppure alla presenza del caso nel nostro mondo, ma afferma la responsabilità dell’uomo di fronte alle proprie azioni. Epicuro l’incompreso voleva solo augurarci una vita “libera dal carcere degli affanni e della politica e basata sul dominio interiore”.

SPINOZA: LE PASSIONI

Secondo Spinoza, ogni singolo corpo si sforza continuamente(questo sforzo è chiamato conatus) nel perseverare nel proprio essere. In questa lotta per il mantenimento della sua potenza e stabilità, il corpo si deve scontrare con gli altri corpi che, a loro volta, cercano in tutti i modi di mantenere la propria. Risulta quindi evidente che da tale scontro ogni corpo subirà degli effetti, siano essi positivi o negativi, dovuti al contatto avuto con gli altri.

Quando l’uomo avverte gli effetti provocati su di lui dall’interazione con l’altro, egli entra a contatto con ciò che comunemente definiamo “passioni”. Ma quali sono le principali passioni? Per Spinoza esse sono la gioia e la tristezza. È chiaro che un uomo prova gioia quando incrementa la propria potenza, grazie all’interazione con l’altro, mentre proverà tristezza quando vedrà diminuire la propria potenza, il proprio status. Ma come possiamo definire le passioni? Secondo il filosofo olandese non sono altro che delle idee confuse che il nostro corpo subisce passivamente. Noi uomini, tuttavia, non ci limitiamo solo a subirle irrazionalmente, ma, ogni qualvolta esse si presentano al nostro corpo, ce ne facciamo anche un’idea. Sarebbe impossibile per noi subirne gli effetti senza provare almeno a comprenderne il senso. A questo punto Spinoza sostiene che poiché pensiamo di conoscere le cose basandoci solamente sugli effetti che gli altri corpi sortiscono sul nostro, allora ogni nostra conoscenza che scaturisce da ciò è priva di oggettività. Non è altro che una conoscenza composta da tante immagini confuse, come ad esempio le nostre associazioni mentali, la memoria e l’esperienza vissuta, frutto quindi di idee incomplete che derivano dalla nostra limitata percezione soggettiva. Le passioni quindi scaturiscono da idee inadeguate. Ma attenzione! Con questo Spinoza non asserisce che le passioni sono un male assoluto o un terribile peccato che commette l’uomo; al contrario, egli ritiene che le passioni siano del tutto naturali nell’ambito della nostra esistenza terrena. In amore spesso ci si chiede come possa essere sconfitta una grande passione per una persona: Spinoza risponde che non si può distruggere una passione, se non la si sostituisce con un’altra più potente. L’uomo ragionevole dovrebbe comprendere che le passioni si inseriscono in quel progetto necessario del mondo, il quale prevede che l’uomo sia schiavo di queste forze affascinanti e pericolose. I filosofi che sostengono che le passioni siano dei vizi che commette l’uomo, ignorano che l’essere umano non ha alcun potere su di esse, proprio perché derivano dalla grande legge che detta la natura. Al cospetto di idee inadeguate, la mente umana è costretta solo a subire passivamente gli effetti prodotti dalle cose esterne ad essa. Le passioni rendono impotente l’uomo perché gli impediscono di moderare e reprimere gli affetti. Il saggio , quindi, è proprio colui il quale accetta impavido e sereno le leggi necessarie della natura alle quali non può opporre alcuna resistenza. La potenza umana è molto limitata e infinitamente superata dalla potenza delle cause esterne. Per questo noi non possiamo adattare al nostro uso le cose che sono al di fuori di noi.

KANT: SENSIBILITÀ E INTELLETTO NELLA RAGION PURA

Secondo Kant l’uomo può conoscere il mondo e tutte le cose che lo circondano mediante l’interazione di due semplici livelli: quello della sensibilità e quello dell’intelletto.

Livello della sensibilità

Anzitutto ci sono io che percepisco il mondo che mi circonda e poi c’è il mondo. Ma come percepisco tutte le cose che mi circondano? È molto semplice. Prima di tutto dovete capire che tutte le cose che vi circondano non potete realmente conoscerle per quello che sono in realtà. Se voi foste nati con degli occhiali dalle lenti blu sugli occhi, di che colore sarebbe stato un prato, una mucca o un comune uomo? Certamente blu. Dunque, Kant sostiene che noi esseri umani nasciamo tutti con degli occhiali sugli occhi, ma le lenti di questi occhiali non sono blu, ma una delle due è la lente dello spazio e l’altra è la lente del tempo. Ciò significa che ogni volta che percepite qualcosa non la vedete blu, ma la collocate in uno spazio e in un tempo ben precisi. Se andiamo in banca, al ristorante o in discoteca, tutte quelle azioni che compiamo non avrebbero alcun senso se non le compissimo in una successione temporale all’interno di uno spazio. Parliamoci chiaro: se trovate una porta chiusa di sicuro non potete sapere cosa si celi nella stanza, ma vi è mai venuto in mente di pensare che al di la dell’uscio non vi sia uno spazio? E quando decidete di conquistare una donna, chiaramente non sapete come andrà, ma di certo sapete che qualcosa dovrà pur succedere, o vi rifiuta o vi cede. Bene, allora è chiaro che le cose in se stesse ci restano sconosciute, ma, attraverso la loro collocazione nello spazio e nel tempo, le cogliamo benissimo. Da ciò si evince come lo spazio e il tempo non stanno all’interno del mondo, bensì si trovano nella nostra percezione del mondo, ovvero nel nostro peculiare modo di conoscere il mondo. Spazio e tempo sono chiamati da Kant intuizioni pure (forme a-priori) della sensibilità, ovvero sono due dimensioni immediate che esistono prima delle cose che osserviamo. Questo perché ancora prima di entrare nella stanza(momento dell’esperienza) già sappiamo che nella stanza c’è uno spazio e delle cose all’interno di esso. Attraverso queste due forme a-priori(prima dell’esperienza), noi filtriamo passivamente tutte le cose che ci circondano. Non decidiamo di vedere un cielo o di provare caldo, ma proviamo queste sensazioni in modo totalmente passivo. Intuiamo cose che esistono al di fuori di noi e queste ci trasmettono delle sensazioni. Quindi gli oggetti agiscono su di noi. Bisogna aggiungere che in questa fase della sensibilità, noi possiamo percepire solo delle singole cose in modo confuso, perché è l’intelletto che si occupa di riorganizzare tutto questo materiale. Di un libro non percepisco subito il libro(la sostanza per Locke e l’oggetto di esperienza) ma la sua forma, il suo colore, il peso (le idee semplici per Locke e gli oggetti dei sensi per Kant). Tutte queste qualità che percepisco passivamente, vengono riunite dall’intelletto attraverso le categorie, il cui ruolo corrisponde esattamente con quello svolto dal tempo e dallo spazio nella sensibilità. Per concludere, basta ricordare come lo spazio e il tempo siano i modi per mezzo dei quali ci è possibile conoscere gli oggetti del mondo che percepiamo passivamente.

Livello dell'intelletto

Il ruolo dell’intelletto, lo ricordo ancora, è quello di unificare la molteplicità dei dati sensibili che percepisco attraverso la sensibilità. Ma come li unifica? Come nella sensibilità tutte le nostre percezioni sono filtrate dal tempo e dallo spazio, anche per quanto riguarda l’intelletto, tutto il materiale confuso che gli giunge viene unificato attraverso delle forme a priori, ovvero attraverso le cosiddette categorie. Le categorie sono quindi i modi attraverso i quali l’intelletto inquadra ed organizza il materiale sensibile filtrato dallo spazio e dal tempo. Anche le categorie, come tempo e spazio, non stanno nelle cose ma solo nel nostro modo di percepirle e quindi sono a priori perché vengono prima e indipendentemente dall’esperienza. Come si può evincere, mentre la sensibilità ha a che fare con le intuizioni che sono dei dati singoli (qualità del libro come il colore, il peso e la forma), l’intelletto lavora sui concetti, che invece sono un’unione di dati. L’intelletto ha quindi la capacità di riunire tutti i dati singoli in un unico concetto. Tuttavia, ci sono due tipi di unificazioni che attua l’intelletto: unifica i singoli dati e ne crea un concetto; unifica i singoli concetti per creare un concetto generale. La differenza è molto semplice. Roberto Fedeli è un singolo uomo, un concetto frutto dell’unificazione dei miei occhi azzurri, dei miei capelli castani e della mia altezza di 180cm., ma, al contempo, Roberto Fedeli fa parte della categoria degli esseri umani, ovvero del concetto generale di uomo. Entrambi i concetti sono dei concetti empirici, non a priori, legati all’esperienza e all’unificazione dei dati sensibili. Le categorie, invece, sono dei concetti puri , che vengono prima dell’esperienza e che permettono a tutti noi di unificare tutti questi dati singoli, siano essi dati o concetti. Le categorie sono dodici e le più eminenti sono certamente quella della causalità e della sostanza. Ormai la categoria sostanza sappiamo bene cosa indichi, ovvero quel modo attraverso il quale unifico tutti i singoli dati (colore, peso, forma) di un libro per ottenere il concetto di libro.

Come interagiscono il campo della sensibilità e quello dell’intelletto?

Una volta compreso il ruolo della sensibilità e poi quello dell’intelletto, sorge spontanea la domanda su come possano interagire questi due campi, o meglio come posso applicare la categoria a una determinata situazione empirica? Kant risponde a questo quesito sostenendo che solo attraverso l’immaginazione, ovvero la nostra facoltà di produrre immagini, è possibile creare degli schemi intermedi tra categorie e sensibilità. Questi schemi, prodotti dall’immaginazione, individuano le condizioni temporali che consentono di applicare una certa categoria ad una situazione specifica. Il tutto risulta molto semplice. Poniamoci la domanda: come applico la categoria di causalità ad una situazione specifica? Servendomi del suo schema, ovvero dello schema che riguarda la categoria di causalità. In questo caso, lo schema, che come ho detto si basa sul tempo, riguarda la successione nel tempo. Ora, se io una volta mi sono bruciato la mano su una fiamma, ogni volta che accendo il gas non metto più la mano sul fuoco, altrimenti mi brucio di nuovo. In realtà cosa succede in questa situazione? Io penso che la fiamma del gas potrebbe causare l’ustione della mia mano soltanto perché applico la mia categoria della causalità(causa ed effetto) ogni volta che mi trovo in una situazione (la mano sulla fiamma) nella quale si verifica una successione nel tempo di determinati fenomeni (ovvero la fiamma a contatto con la mia mano causa successivamente come effetto la mia ustione). Altro quesito. Come applico la categoria di sostanza ad una situazione specifica? Ancora una volta servendomi del suo schema, ovvero dello schema che riguarda la categoria di sostanza. Lo schema, che si basa sempre sul tempo, non riguarda, come nel caso della causalità, la successione nel tempo, bensì la permanenza nel tempo. Vediamo perché. Il mio cellulare, come si può comprendere dalle mie spiegazioni precedenti, è un insieme di forma(rettangolare), colori(rosso,nero) e molte altre componenti che ne costituiscono le cosiddette qualità. Tuttavia, nella mia riorganizzazione mediante l’intelletto, io ritengo che esso sia semplicemente un cellulare, ovvero una sostanza. Il mio cellulare sta fermo nel tempo, o meglio è un oggetto che con il passare del tempo rimane sempre uguale e non cambia mai. Ciò dimostra che, grazie alla sua permanenza nello spazio, sempre uguale a se stesso, l’uomo riesce a chiamare cellulare un insieme di moltissime qualità(o se preferite, di accidenti). Quindi, in realtà esistono solo i colori nero e rosso, la forma rettangolare e i diversi tasti del cellulare, mentre il cellulare, come contenitore di cose, sta solo nella mia testa grazie alla sua permanenza, uguale a se stesso, nel corso del tempo.

L’esistenzialismo: il problema della libertà e della conoscenza

Il grande fascino che scaturisce da quell’indirizzo filosofico che prende il nome di Esistenzialismo, nasce dalla grande difficoltà di poterne descriverne con certezza gli interpreti e di definirne le peculiarità del campo d’indagine. È curioso ricordare come la filosofia esistenzialista del ‘900 si ispiri ad autori quali Kirkegaard, Pascal e Montaigne, i quali hanno sviluppato il loro pensiero in un contesto storico e culturale alquanto lontano dagli sviluppi della contemporaneità filosofica. Ciò distingue profondamente anche le finalità che animano i diversi grandi nomi che vanno a costituire l’orizzonte entro il quale si colloca la corrente dell’esistenzialismo. Ritengo opportuno proporvi la continuità tematica di alcuni problemi comuni che attanagliavano le menti di personalità così distanti ideologicamente e culturalmente.

Bisogna anzitutto specificare che l’intero pensiero filosofico occidentale, da Parmenide in poi, si è sempre posto il problema di studiare l’essere delle cose. Il termine, introdotto nel XVII secolo, per indicare la disciplina che studia l’essere in quanto tale è “ontologia”, ovvero la ricerca dell’essere in quanto tale. Ora, è importante comprendere che a tutti i pensatori che vi propongo di seguito non interessa poi molto lo studio dell’essere in quanto tale, ma spostano il loro interesse sulla concretezza dell’esistenza dell’uomo. I due grandi temi di questo studio sull’esistenza umana sono rappresentati dalla libertà e dalla possibilità della conoscenza.

Ma perché è così importante il problema della libertà?

Per Pico della Mirandola, l’uomo è l’unico creatura vivente che non ha una natura predeterminata. Ciò significa che l’uomo è l’unico essere che si rende conto del mondo che lo circonda. Riflettiamo un attimo. Qualsiasi animale vive sulla base di istinti primordiali che lo caratterizzano; questo comporta che gli animali hanno delle leggi prestabilite nella loro stessa natura che regolano tutti i loro comportamenti. Ma parliamo dell’uomo. Cosa lo differenzia dagli animali? Il fatto che egli è un essere libero, che possiede la libertà di scegliere cosa fare del proprio destino. Attenzione però! Questa sua grande dote è in realtà, per la filosofia esistenzialista, la sua più grande condanna. Vediamo perché.

Per Sartre, l’uomo è condannato ad essere libero, in quanto egli non ha scelto di venire al mondo. Egli si trova improvvisamente nel mondo, come un progetto gettato, senza averlo scelto. A questo punto però si rende conto che per vivere in questo mondo, egli deve continuamente fare delle scelte, prendere delle decisioni. Diventa, cioè, responsabile di tutto quello che sceglie di fare. Il dramma si accresce anche perché l’uomo, una volta gettato nel mondo a scegliersi il futuro, non potrà mai cessare di essere libero e di prendere sempre delle decisioni. A questo punto, se ci pensiamo bene, sorge un ulteriore problema che Heidegger ci spiega molto bene. Ognuno di noi non è un qualcosa di immutabile, sempre uguale a se stesso per tutta la vita, ma è l’esatto opposto. Noi non siamo mai solo ciò che siamo in un determinato momento, ma sempre anche quello che progettiamo di essere per il futuro. Non eseguiamo mai un’azione tanto per farla, ma sempre perché abbiamo degli scopi ben precisi, dei motivi. Quando scegliete di comprare un libro non lo fate mai a caso, ma sempre per qualche motivo vostro personale; su consiglio di un amico, perché vi ha incuriosito la trama o la copertina ecc. Tuttavia, per Heidegger conta molto anche il passato, o meglio l’orizzonte entro il quale noi facciamo delle scelte. In pratica egli sostiene semplicemente che ogni nostra azione è sempre vincolata dalla nostra tradizione familiare, dagli insegnamenti ricevuti, dal periodo storico e culturale in cui viviamo. Una volta compreso tutto questo discorso, possiamo finalmente parlare di cosa comportano le nostre scelte. Anzitutto, partendo dal presupposto che Heidegger non crede in Dio, bisogna precisare che se non esiste una vita di redenzione e perdono dopo la morte, allora è chiaro che ogni scelta che io faccio acquisterà un senso assoluto. La scelta di una cosa esclude l’altra. Nessuno mi perdona se sbaglio, ma pago solo le conseguenze della mia cattiva azione. Questo tipo di vita, basata sulla scelta, è considerata un’esistenza autentica, ovvero la vita di un uomo che sceglie essendo consapevole del fatto che dopo la morte nessuno lo perdonerà se ora sbaglia. In pratica l’uomo non ha altre possibilità, ma sempre e solo una. Ciò comporta che ogni scelta arreca nell’uomo angoscia, perché se sbaglia non c’è speranza di reversibilità. L’angoscia, ben tratteggiata da Kirkegaard, è la minaccia del nulla e il sentimento del possibile. Perché proviamo angoscia? Perché quando dobbiamo scegliere c’è una possibilità giusta e mille sbagliate.

Dopo aver illustrato sinteticamente il problema della libertà, possiamo ora parlare dell’altro grande tema della filosofia dell’esistenzialismo, ovvero il problema della possibilità della conoscenza.

Possiamo realmente conoscere il mondo che ci circonda?

La risposta degli esistenzialisti è negativa. Per Jaspers il mondo non è altro che un continuo divenire, un susseguirsi di cose senza alcun senso che noi, esseri umani, non possiamo comprendere totalmente. L’uomo, secondo il filosofo, può conoscere solo gli oggetti che si presentano a noi come già determinati, ma da dove provengano e cosa significhino (in se stessi) ci è impossibile comprenderlo. Per il filosofo francese Marcel, l’uomo può e deve sempre cercare la verità, pur essendo cosciente del fatto che non potrà mai giungere a una risoluzione definitiva. Pensiamo un attimo ai filosofi. Ogni risultato che un singolo pensatore raggiunge è sempre parziale, perché continua il percorso di quello che lo precede e verrà a sua volta superato dai filosofi che seguiranno. In effetti la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi naviga sempre nell’incertezza. Per Montaigne, anche quelle certezze che ci appaiono tali, non sono esenti da dubbi. La ragione, prosegue il pensatore francese, non è illimitata ma si limita a fornire dei consigli utili al fine di agevolare la condotta da assumere in questo mondo privo di un significato preciso. Questo disagio esistenzialista si sviluppa anche in quella letteratura del ‘900 che ha in Kafka e Camus i due esponenti più significativi. Negli scritti di Kafka tutta l’esistenza umana è continuamente minacciata dall’insignificanza e dal nulla, minaccia che si interrompe solo con la morte. La realtà tende sempre a sfuggire ai suoi personaggi che si illudono solo momentaneamente di poterla comprendere. L’agrimensore de “Il castello” si trova schiacciato da una realtà che sfugge ai suoi criteri di valutazione e si sente ovunque schiacciato e alienato. L’assurdità dell’essere trova il suo compimento nel pensiero e nei romanzi di Albert Camus. Egli ritiene che l’uomo possegga un’infinità di aspirazioni che, tuttavia, non riesce mai a realizzare pienamente. Il protagonista de “Lo straniero” è indifferente alla vita. Si reca senza commozione al funerale della madre e uccide un uomo senza rendersene conto e senza alcun motivo. Accetta senza problemi persino la sua condanna a morte. Davanti al non-senso, all'assurdo, la domanda sorge spontanea: ha senso vivere?

NIETZSCHE: VERITÀ E MENZOGNA

LA VERITÀ E LA MENZOGNA


È l’uomo che crea la divinità. Ma perché la crea? Secondo Nietzsche, l’essere umano si rende conto della propria finitudine e ne soffre a tal punto, che colloca fuori di se, in una creatura trascendente, quella perfezione di cui egli si sente privo e che vorrebbe possedere a tutti i costi. A causa di questo spostamento in una entità superiore di tutto ciò che è buono, giusto e positivo, l’uomo finisce inevitabilmente per considerare tutto ciò che lo riguarda, dagli istinti alle passioni, come un qualcosa di negativo, colpevole e deprecabile. Tutto ciò che è umano assume, così, dei connotati tristi e peccaminosi, in quanto costituisce il segno evidente dell’imperfezione e dell’incompletezza terrestre. Ritenendo perfetto e giusto il cielo, l’uomo finisce per dimenticare che egli è nato per vivere solo sulla terra. Egli è solo corpo, non possiede un’anima. Solo l’accettazione della vita così come essa è, con tutti i suoi problemi, porta alla gioia. Quando ci viene insegnato di seguire sempre la voce della nostra coscienza, la parola di Dio dentro di noi, in realtà ci viene detta una grande menzogna. La voce della nostra coscienza rivela soltanto la presenza in noi delle direttive imposte dalle autorità sociali che ci governano. Ogni coscienza umana è sempre il risultato di un gioco di influenze e di un equilibrio gerarchico di forze contrastanti che derivano da una particolare situazione storica e sociale.

A questo punto è utile sottolineare il grande scetticismo nutrito da Nietzsche rispetto al significato profondo della parola verità. Per il pensatore tedesco tutto ciò che noi chiamiamo usualmente verità, non è altro che un’illusione della quale abbiamo dimenticato la natura illusoria. Secondo Nietzsche l’uomo ha bisogno di verità per poter comprendere il significato della realtà che lo circonda. Ogni essere umano usa il proprio intelletto per rendere leggibile il mondo, ovvero per inquadrarlo razionalmente. Solo attraverso i concetti l’uomo riesce a crearsi la visione di un mondo regolare. È questo il motivo per il quale l’uomo ha una grande fiducia nella scienza, poiché in essa riscontra la capacità di razionalizzare tutto ciò che studia. L’essere umano necessita, inoltre, di modelli e maestri del passato che possano consolarlo e mostrargli continuamente la retta via da intraprendere. A questo punto l’intelletto, dopo aver creato delle verità da seguire per rendere razionale e stabile l’esistenza umana, tutela ulteriormente l’individuo celandogli la natura menzognera di tali verità. Non si limita, cioè, a creare dei miti, ma si occupa anche di far dimenticare all’umanità che è stato egli stesso a crearli. L’uomo può vivere tranquillo solo se si dimentica del fatto che è la sua stessa fantasia ad illuderlo dell’esistenza della verità nel mondo . Se l’uomo crede ad una menzogna per molti secoli, allora questa finirà per essere riconosciuta come una verità da tutti gli uomini, poiché verrà potenziata e trasmessa di generazione in generazione e finirà per sembrare solida e vincolante per popoli interi. Quando una precisa parola rimanda sempre a una stessa immagine nel corso del tempo, l’uomo finisce per credere che ciò sia il frutto di un rapporto causale. Da tutto questo discorso risulta palese come ogni uomo finisca per confondere le metafore, create dalla sua fantasia, con la verità presente nelle cose stesse. L’evidenza che ci fa ritenere vera una proposizione non è segno di una sua verità, ma è solo segno che quella proposizione corrisponde meglio di altre ai condizionamenti psicologici e sociali che ci dominano. Tutto ciò che di volta in volta si presenta come verità non è altro che la prevalenza di un certo criterio del vero imposto da questo o quel gruppo di maggior potere sociale. Non esiste alcuna verità-base, conclude Nietzsche, perché anche la credenza nel valore della verità è una credenza storicamente condizionata. Mi sembra opportuno suggellare questo breve saggio sul filosofo tedesco riportando una suo aforisma esplicativo su questo tema.

“Vi sono nel mondo più idoli che realtà e sono proprio questi idoli(gli ideali) che hanno fatto decadere il mondo.”

KANT E LA VERA RELIGIONE

COSA È IL BENE

L’unica cosa buona che esiste è la volontà buona. Questa volontà non è buona in base a quello che fa o in base a quello che ottiene, ovvero per il raggiungimento dei fini che si propone, ma solo per il fatto di VOLERE, ovvero è buona in se stessa. Diviene moralmente cattiva quando viene usata in vista di qualche inclinazione. La nostra ragione è in grado di influenzare la volontà ed ha come obiettivo quello di produrre una volontà buona, non in vista di qualche scopo ma solo in se stessa. Questa volontà è il nostro bene supremo, ovvero la condizione indispensabile per ogni altro bene che da essa deriva, compresa la felicità. Diciamo che la volontà buona è il nostro fine primo. L’azione possiede valore morale solo se il movente è il dovere e quindi si deve sempre agire al di fuori di ogni inclinazione. Il bene morale più alto, quindi, è quando si fa il bene non per inclinazione, ma solo per dovere.

Mi debbo sempre comportare in modo tale che la mia azione possa essere ritenuta corretta da tutte le persone. Quindi la massima che io scelgo deve diventare una legge considerata la migliore da tutti gli uomini. Questo è il concetto fondamentale del discorso kantiano sulla morale.

Per chiarire in modo pratico e semplice questo concetto, portiamo prima un esempio di una volontà buona e poi un esempio di una volontà cattiva. Se io dico alla mia compagna la verità su un mio comportamento perché DEVO sempre dire la verità, allora seguo la legge giusta; di contro, se sono sincero con la mia compagna perché ho paura delle conseguenze che potrebbero derivare da una mia bugia, allora non agisco bene dal punto di vista morale.

Tuttavia, di fronte a tutti i comandi del dovere che la ragione gli presenta, l’uomo sente in se stesso un potente contrappeso nei suoi bisogni e nelle sue inclinazioni, il cui soddisfacimento completo, il cui fine ultimo, prende il nome di felicità. Bisogna sottolineare che le inclinazioni, prese in se stesse, non sono cattive. Esse sono persino buone, a patto, sottolinea Kant, a patto che l’uomo riesca a domarle per evitare che entrino in conflitto tra di loro. Il vero problema consiste, dunque, nel fatto che tutti noi, in quanto uomini, spesso non conformiamo pienamente la nostra volontà alla nostra ragione e quindi capita che quello che la ragione riconosce come buono oggettivamente, viene da noi eluso.

IMPERATIVO CATEGORICO E IMPERATIVO IPOTETICO

La nostra ragione ci ordina, tramite gli imperativi, di seguire la legge oggettiva e quindi buona. A questo punto entra in gioco la nostra volontà soggettiva che deve rispettarla, ma che è imperfetta. Ora, la ragione comanda tramite degli imperativi che possono essere ipotetici o categorici.

L’imperativo ipotetico sta a significare che l’azione è buona in vista di qualche scopo, possibile o reale. Se adopera l’imperativo ipotetico, l’uomo non si chiede se il fine che vuole raggiungere sia razionale o buono, ma gli interessa soltanto che cosa deve fare per poterlo raggiungerlo. Appare chiaro come, in questo caso, all’uomo interessano i mezzi per raggiungere il suo scopo. Tuttavia c’è un fine che si può presupporre reale per tutti gli esseri ragionevoli ed è il fine della felicità. Ora, qualsiasi imperativo che si occupa di scegliere i mezzi per raggiungere la propria felicità, ad esempio la prescrizione della prudenza, è sempre ipotetico; l’azione comanda di usare quel mezzo per raggiungere quel fine.

L’imperativo categorico, invece, comanda immediatamente LA condotta da seguire. Esso non concerne la materia (i mezzi) dell’azione ma la forma (il principio da cui l’azione stessa deriva). Questi tipi di comandi sono leggi a cui bisogna obbedire anche contro la propria inclinazione. Posso comprendere alla perfezione che te, lettore, non vuoi dire a quel tuo conoscente che ti risulta falso e bugiardo, ma DEVI farlo. Mi chiedi perché dovresti farlo? Semplice, perché DEVI.

IL LUNGO E ARDUO CAMMINO VERSO IL BENE

Dato che dobbiamo conformarci alla Legge, allora possiamo, ne siamo in grado. La Legge dice: ”siate santi come lo è il vostro padre nei cieli”. Tale è l’ideale del figlio di Dio che abbiamo come modello. Comprendo quanto sia arduo conformare la nostra condotta con la santità della legge. Tuttavia dobbiamo farlo. Questo è il punto più importante di tutto il discorso: la nostra santità deve quindi essere riposta nell’intenzione, ovvero pur essendo consci di non poter mai diventare santi, dobbiamo cercare ugualmente di raggiungere la santità. Tutto questo deve essere possibile perché è un nostro dovere. Il nostro è un progresso continuo e infinito dal bene insufficiente al meglio e la nostra azione è sempre difettosa, perché il nostro bene sarà sempre inferiore alla perfezione della legge santa. Tuttavia possiamo sperare che questo incessante cammino verso la perfezione possa essere gradito a Dio. Se io ho sempre un’intenzione verso il bene, allora sarò felice moralmente. Chiaramente se venisse meno la fiducia nella nostra intenzione, sarebbe quasi impossibile perseverare in essa. Mentre ogni progresso raggiunto ci da più forza per continuare nel cammino, ad esempio ogni complimento estetico ci fa sentire sempre un po’ più belli, ogni ricaduta nel male, nonostante lo sforzo perpetrato per fare il bene, porta ad uno scoraggiamento che tende a far ricadere sempre più spesso nel male. Bisogna sempre riconoscere come bene morale solo la buona condotta e non bisogna cercare compensi né mediante le superstizioni, né tantomeno mediante le illuminazioni interiori.

IL REGNO DI DIO SULLA TERRA: LA COMUNITÀ ETICA

Tutto questo discorso conduce ad un’ovvia conclusione: la vera religione morale non può consistere in dogmi, in osservanze e nella fede nei miracoli, ma in una disposizione a sottostare a tutti i doveri umani come comandi divini.

Kant si sofferma su due tipi di comunità, ovvero due diverse tipologie di aggregazione di uomini. Nello stato giuridico-civile, ovvero nello stato politico, gli uomini decidono di sottostare a leggi pubbliche giuridiche costrittive (il popolo sceglie di limitare la propria libertà pur di renderla compatibile con la libertà di tutti gli altri secondo una legge generale). Nello stato etico-civile, invece, gli uomini sono uniti da leggi prive di costrizione, cioè da semplici leggi della virtù. Entrambi gli stati provengono da un iniziale stato di natura, nel quale non esistono leggi alle quali ogni individuo si deve conformare. Ognuno, quindi, risulta giudice di se stesso e non c’è nessuna autorità che stabilisca quale sia il dovere di ciascuno. Nello stato di natura giuridico regna solo l’anarchia, che conduce alla guerra di tutti contro tutti, mentre nello stato di natura etico vige una costante ostilità del principio buono contro il principio cattivo. Ora, in una comunità politica, ove regnano i principi legali da rispettare, tutti i cittadini si trovano in uno stato di natura etico e sono liberi di unirsi o meno con altri concittadini in un’associazione etica. Appare chiaro quanto differiscano questi due tipi di aggregazione umana, ma Kant ne rende esplicita un’altra differenza fondamentale. Il filosofo tedesco sostiene che lo stato etico-civile si basa esclusivamente sui doveri morali, i quali riguardano l’intero genere umano. Ciò significa che mentre la comunità politica è un’aggregazione parziale di uomini, quella etica abbraccia l’intera umanità. Non riguarda il dovere di ogni essere umano verso se stesso, ma esige un’associazione di tutti per tendere al fine comune, ovvero il sommo bene morale. Chiaramente un dovere così grande richiede l’idea di un essere moralmente superiore, il quale coadiuvi le forze insufficienti dei singoli individui. In una comunità etica tutte le leggi da seguire riguardano la nostra azione interiore. Per questo motivo, non è possibile creare delle leggi pubbliche, create dagli uomini, da far rispettare a tutti. Ciò è impossibile, trattandosi di aspetti universali e completamente interiori dell’uomo. Quindi non è concepibile che le leggi etiche siano promulgate da un capo supremo, perché in questo caso noi non saremmo più liberi di scegliere se conformarci o no a tali principi, ma saremmo costretti a farlo (costrizione). Quindi la comunità etica deve sottostare solo al comando divino di Dio, deve cioè essere il popolo di Dio sulla terra, ma deve tuttavia basarsi solo sulle leggi della virtù. Tuttavia l’idea di una comunità etica deve, a causa dell’imperfezione dell’essere umano, risolversi in una istituzione sulla terra che è limitata da una natura umana vittima delle sensazioni. Per tale motivo Kant si chiede come si possa ricavare da un legno così nodoso, quale è l’uomo, qualche cosa di perfettamente dritto. La risposta è semplicissima: non si può. Quindi la fondazione di un regno di Dio sulla terra non potrà mai essere opera dell’uomo, ma solo di Dio. Tuttavia, ciò non significa che l’uomo è autorizzato a restare inattivo in questa impresa, lasciando fare alla provvidenza, come se egli dovesse preoccuparsi solo dei propri interessi morali privati. Egli, invece, deve comportarsi come se fosse in grado di risolvere tutto con le sue sole forze. Solo in tal caso egli può sperare che una saggezza superiore coroni i suoi sforzi, sorretti dalla buona intenzione.

È utile terminare questo breve passaggio kantiano sulla vera religione, ricordando la natura finita ed imperfetta dell’uomo. All’uomo comune interessa molto poco il valore morale contenuto nelle sue azioni, ma si preoccupa maggiormente di compiere le azioni per ingraziarsi Dio mediante un’obbedienza passiva. Gli uomini non riescono a rendersi conto che, quando adempiono ai loro doveri, osservano anche i comandi divini e che è del tutto impensabile servire Dio in un modo più diretto e coerente. L’uomo, invece, crede alla rivelazione, la quale, sia se è stata fatta in privato a qualcuno sia se è stata diffusa pubblicamente attraverso la tradizione, resta sempre una fede storica e non una fede razionale pura. La legislazione che si basa sulla rivelazione non potrà mai essere universale, a differenza di quella morale, in quanto sarà sempre casuale. Risulta casuale perché non ci sono garanzie che giunga a tutti gli uomini e quindi, di conseguenza, non può essere ritenuta una regola valida per ogni uomo. Infatti, nella fede religiosa pura, l’essenziale è rappresentato solo dall’adempimento secondo l’intenzione morale di tutti i doveri come comandi divini. Quindi la volontà divina ci comanda di realizzare l’idea razionale di questa comunità e di non desistere mai, nonostante gli esiti infelici dei nostri tentativi.

In realtà, afferma Kant, esiste una sola vera religione e molte fedi diverse. Quindi il giudaismo, il cristianesimo e il luteranesimo, sono solo delle fedi e non delle religioni, perché appunto ne esiste solo una. L’uomo comune tende, tuttavia, a chiamare religione la propria fede ecclesiastica che cade sotto i suoi sensi, dimenticando che in realtà la religione vera sta dentro di lui e dipende solo dalla sua intenzione morale.