SANT'AGOSTINO E LA CONCEZIONE DEL TEMPO

Agostino critica la classica divisione del tempo in tre tempi: passato, presente e futuro.

È chiaro che se nulla passasse, non potrebbe esistere un passato;

se nulla sopraggiungesse, non potrebbe esistere un futuro;

Se nulla esistesse, non potrebbe esistere neppure un presente.

Queste tre verità, chiare a tutti noi, nascondono però un grande errore di fondo.

Come fa ad esistere il passato dal momento che non esiste più?

E come fa ad esistere il futuro dato che non esiste ancora?

A questo punto, voi potreste pensare che il gioco è risolto: esiste solo il presente.

Ma non è così semplice la risoluzione del problema. Infatti presente significa qualcosa che si trova qui ed ora davanti ai miei sensi che la percepiscono. Ma basta un attimo per farmi comprendere che, ciò che un secondo fa era qui ed ora davanti a me, è già diventato qualcosa che sta nel passato. Basta pensare a quando vi scattano una fotografia: la fate e poi mentre vi guardate sorridenti impressionati sullo schermo della fotocamera, contemplate già un momento che appartiene al vostro passato. Bene allora mi sembra chiaro che se il presente rimanesse sempre presente sarebbe destinato a non tramontare mai nel passato e quindi non sarebbe più un tempo, ma l’eternità. Se mentre vi faccio la foto voi continuate a sorridere in eterno senza che io la scatti mai, allora si che potremmo parlare di eterno presente. Il problema del presente è proprio il fatto che esso scorre, fluisce, scappa continuamente e quindi è privo di estensione. Inoltre non dimentichiamo che il presente termina immediatamente nel passato e quindi sarebbe arduo affermare l’estensione del presente, se a questo basta un attimo per smettere di esistere. A questo punto Agostino spiazza tutti asserendo che anche per lui esistono tre tempi. Ma questi tempi non sono altro che il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro. Il presente del passato è chiaramente la nostra memoria, o meglio le immagini del passato depositate nella nostra memoria. Quando si raccontano avvenimenti passati non ritornano alla mente gli avvenimenti in se stessi, ma le immagini di essi che abbiamo impresso nella nostra memoria. Questa è la nostra delizia e la nostra condanna; se ricordiamo i numeri possiamo eseguire tutte le operazioni che ci si presentano in un esame di matematica, ma se ci ricordiamo di un amore passato, spesso questo ci appare diverso perché l’immagine che ne conserviamo può rivelarsi molto dissimile dai momenti che abbiamo vissuto realmente in passato. Il presente del futuro è invece l’attesa. L’attesa ci condanna sempre ad aspettare qualcosa che arriverà in un tempo prossimo a venire e che rappresenta proprio la misura del nostro futuro. Quando si dice che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso, che non esiste ancora, ma si vedono nel presente delle cause o degli indizi che potrebbero condurre a quegli effetti e a quei risultati in un tempo successivo; non il futuro, ma il presente appare alla nostra vista e grazie ad esso possono essere preannunziate cose prossime a compiersi. Il presente del presente, come già era chiaro sopra, è semplicemente il momento in cui noi intuiamo le cose. Tutto dipende da questa intuizione perché il tempo possiamo misurarlo solo quando lo percepiamo. Il tempo è quindi estensione del nostro animo. Non è altro che l’impressione delle cose che viene conservata in noi, la quale dura anche quando le cose non sono più presenti. Il nostro animo compie tre operazioni fondamentali: attende, presta attenzione e ricorda. Quello che l’animo attende, attraverso il suo sviluppo nel presente, passa subito dopo nel ricordo.

“Nell’animo vive l’attesa del futuro, la memoria del passato e, nonostante il presente manchi di estensione, dura l’attenzione attraverso la quale il futuro tende al passato.”

EPICURO L'INCOMPRESO

La filosofia originaria di Epicuro, l’epicureismo, è certamente uno dei momenti più interessanti dell’intera storia del pensiero filosofico. Purtroppo gran parte del successo di cui gode questo movimento è dovuto prevalentemente ad una preoccupante incomprensione dei suoi dettami e delle sue finalità.

L’errore di fondo risiede nello scorretto significato attribuito al piacere, tanto decantato dall’epicureismo. Chiunque pensi che Epicuro propinasse una filosofia dell’allegria, della dissolutezza e del piacere orgiastico, commette un errore madornale. Anzitutto bisogna distinguere due tipi di piacere: il piacere in movimento e il piacere stabile. Il primo consiste in tutti quegli attimi di gioia e di spensieratezza che coronano, fortunatamente, la vita di ognuno di noi. Il secondo si esplica nella privazione del dolore. Ora, la prima tipologia di piacere non solo è avversata da Epicuro, ma si rivela essere persino un ostacolo al raggiungimento della seconda forma, il piacere duraturo. La vita felice consiste in un’esistenza che prevede l’assenza del dolore e dei problemi futili. Solo conoscendo questa santa verità si vive felici. Qualsiasi forma di timore deriva esclusivamente dall’ignoranza dell’uomo. L’uomo, al fine di giungere ad un’esistenza che lo completi, deve liberarsi di ogni desidero irrequieto, al fine di poter abbracciare una serenità permanente. Infatti più che dottrina del piacere, quella di Epicuro è una dottrina del piacere negativo. Il piacere negativo indica un stato in cui l’uomo prova su e in se stesso l’atarassia(assenza di turbamento) e l’aponia (assenza di dolore). Usando una mediocre metafora, potrei suggerire che l’uomo felice non è quello che ride spesso, ma quello che non piange mai. Il culmine del piacere, quindi, si raggiunge solo attraverso la limitazione dei propri bisogni. L’uomo epicureo non è mai schiavo dei suoi desideri futili, ma è ligio al perseguimento dei soli desideri naturali e necessari. L’epicureismo non vuole l’abbandono al piacere, ma l’esatto opposto: la misura dei piaceri. Il vero piacere non è mai quello violento e momentaneo. L’uomo deve essere in grado di considerare i vantaggi e gli svantaggi di ogni sua scelta; infatti un bene presente potrà rivelarsi un male futuro ed un male presente potrà tramutarsi in un bene futuro. Quindi cosa dobbiamo assolutamente evitare, secondo Epicuro, per raggiungere la serenità dell’animo? Bisogna eliminare il dolore che proviene dal bisogno. Il principio del bene è la prudenza. Lo stesso filosofo ci ricorda che “solo non avendo il molto, ci accontentiamo del poco” ed insiste ricordandoci che “gode dell’abbondanza chi meno di essa ha bisogno”. In sintesi, il piacere deriva dal sobrio ragionare che sappia scegliere con cura le motivazioni di ogni atto, che sappia scacciare le false opinioni. Epicuro insiste anche su di un altro punto. Egli sostiene che, poichè la felicità si può raggiungere in questo mondo, la morte non deve spaventarci. Ciò significa che la nostra vita terrena ci offre l’opportunità di essere felici e quindi non abbiamo alcun bisogno e necessità di postulare una vita eterna. Per ciò che concerne la morte, dice Epicuro, “se ogni bene ed ogni male risiedono nella sensazione, la morte è privazione di questa”. La morte è solo dissoluzione degli atomi di un corpo, quindi mera insensibilità. Come si fa a temere la morte se “quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte noi non ci siamo più”?. Epicuro non crede neppure alla presenza del caso nel nostro mondo, ma afferma la responsabilità dell’uomo di fronte alle proprie azioni. Epicuro l’incompreso voleva solo augurarci una vita “libera dal carcere degli affanni e della politica e basata sul dominio interiore”.

SPINOZA: LE PASSIONI

Secondo Spinoza, ogni singolo corpo si sforza continuamente(questo sforzo è chiamato conatus) nel perseverare nel proprio essere. In questa lotta per il mantenimento della sua potenza e stabilità, il corpo si deve scontrare con gli altri corpi che, a loro volta, cercano in tutti i modi di mantenere la propria. Risulta quindi evidente che da tale scontro ogni corpo subirà degli effetti, siano essi positivi o negativi, dovuti al contatto avuto con gli altri.

Quando l’uomo avverte gli effetti provocati su di lui dall’interazione con l’altro, egli entra a contatto con ciò che comunemente definiamo “passioni”. Ma quali sono le principali passioni? Per Spinoza esse sono la gioia e la tristezza. È chiaro che un uomo prova gioia quando incrementa la propria potenza, grazie all’interazione con l’altro, mentre proverà tristezza quando vedrà diminuire la propria potenza, il proprio status. Ma come possiamo definire le passioni? Secondo il filosofo olandese non sono altro che delle idee confuse che il nostro corpo subisce passivamente. Noi uomini, tuttavia, non ci limitiamo solo a subirle irrazionalmente, ma, ogni qualvolta esse si presentano al nostro corpo, ce ne facciamo anche un’idea. Sarebbe impossibile per noi subirne gli effetti senza provare almeno a comprenderne il senso. A questo punto Spinoza sostiene che poiché pensiamo di conoscere le cose basandoci solamente sugli effetti che gli altri corpi sortiscono sul nostro, allora ogni nostra conoscenza che scaturisce da ciò è priva di oggettività. Non è altro che una conoscenza composta da tante immagini confuse, come ad esempio le nostre associazioni mentali, la memoria e l’esperienza vissuta, frutto quindi di idee incomplete che derivano dalla nostra limitata percezione soggettiva. Le passioni quindi scaturiscono da idee inadeguate. Ma attenzione! Con questo Spinoza non asserisce che le passioni sono un male assoluto o un terribile peccato che commette l’uomo; al contrario, egli ritiene che le passioni siano del tutto naturali nell’ambito della nostra esistenza terrena. In amore spesso ci si chiede come possa essere sconfitta una grande passione per una persona: Spinoza risponde che non si può distruggere una passione, se non la si sostituisce con un’altra più potente. L’uomo ragionevole dovrebbe comprendere che le passioni si inseriscono in quel progetto necessario del mondo, il quale prevede che l’uomo sia schiavo di queste forze affascinanti e pericolose. I filosofi che sostengono che le passioni siano dei vizi che commette l’uomo, ignorano che l’essere umano non ha alcun potere su di esse, proprio perché derivano dalla grande legge che detta la natura. Al cospetto di idee inadeguate, la mente umana è costretta solo a subire passivamente gli effetti prodotti dalle cose esterne ad essa. Le passioni rendono impotente l’uomo perché gli impediscono di moderare e reprimere gli affetti. Il saggio , quindi, è proprio colui il quale accetta impavido e sereno le leggi necessarie della natura alle quali non può opporre alcuna resistenza. La potenza umana è molto limitata e infinitamente superata dalla potenza delle cause esterne. Per questo noi non possiamo adattare al nostro uso le cose che sono al di fuori di noi.